CANTI POPOLARI DI MORCIANO IN UNA RACCOLTA DI FINE OTTOCENTO
di Alessio Stefàno
Tra il 1871 e il 1872 Antonio Casetti e Vittorio Imbriani pubblicano l’importante opera, in due volumi, “Canti popolari delle provincie meridionali” (Roma-Torino-Firenze, Ermanno Loescher), contenuta all’interno della collana “Canti e racconti del popolo italiano pubblicati per cura di D. Comparetti ed A. D’Ancona”.
Su Antonio Casetti, professore e funzionario ministeriale salentino, si hanno notizie relativamente scarne. Sappiamo che nacque a Lecce il 30 marzo 1840. Dopo il conseguimento della laurea presso l’università di Napoli, si trasferì a Milano, dove tenne cicli di lezioni propedeutiche all’insegnamento dell’italiano nell’Accademia scientifico letteraria. Nel 1872 si trasferì a Roma, dove fu assegnato al liceo ginnasio “Visconti”. Nel 1874, fu nominato direttore dell’appena costituito “Museo d’istruzione” e poco dopo, già affetto dalla malattia che lo avrebbe portato alla morte l’anno successivo, ottenne il trasferimento a Lecce come provveditore di quella provincia (cfr. L. MONTEVECCHI-M. RAICICH 1995, pp. 30 e passim.).
Se poco si sa di Antonio Casetti, assai più cospicue sono le notizie biografiche su Vittorio Imbriani. Vittorio Ugo Imbriani (nome che tradisce la passione del padre per Victor Hugo) nacque a Napoli il 27 ottobre 1840. Nel 1849 la reazione borbonica costrinse il padre, già ministro dell’istruzione nel governo Troya, a fuggire a Genova portando con sé Vittorio. Ricongiuntisi l’anno seguente con il resto della famiglia, nel 1853 si trasferirono a Nizza, poi, l’anno successivo, a Torino. Vittorio ottenne poi dal padre di raggiungere a Zurigo, nel 1858, Francesco De Sanctis, di cui seguì i corsi universitari.1 Dopo gli studi universitari a Berlino ed un soggiorno a Parigi, durante il quale si affiliò alla massoneria, al ritorno nella patria ormai unificata ebbe inizio il suo faticoso processo di partecipazione alla vita accademica, culturale e politica della nuova Nazione, seguendo la strada comune a molti altri intellettuali del tempo, sulle orme del suo maestro, De Sanctis. Gli anni dal 1866 alla morte furono «fittissimi di scritture e di imprese appassionate e ricche d’ingegno: circa cinquanta lavori a stampa, continuata mobilitazione di collaboratori e collaboratrici, una mole documentaria imponente, e nell’epistolario decine di lettere spesso corpose come saggi» (cfr. A.M. Cirese 1990, p. 165). In questa mole di studi ed edizioni spiccano proprio i Canti popolari delle provincie meridionali.2
Vittorio Imbriani (da: https://fondazionevittorioimbriani.jimdofree.com/appunti/biografie/).
Francesco De Sanctis (da: wikipedia).
All’interno della pubblicazione, i canti sono suddivisi per luoghi e numerati progressivamente, in ordine alfabetico, attraverso numeri romani (I, II, ecc.); numerosi altri canti sono poi riportati nelle cospicue note e sparsi qua e là nel testo. Il tutto costituisce un’opera piuttosto lunga, complessa ed articolata, la cui impalcatura di base è sì costituita dall’articolazione dei vari canti presentati per luoghi, ma allo stesso tempo apre alla ricerca di confronti tra i diversi luoghi della neonata Nazione ed alla ricorrenza di peculiari tematiche nell’ambito della narrazione popolare.
Nell’ottica positivista e nazionalista che ha portato alla stesura della raccolta di Casetti e Imbriani, «questi depositi della memoria non vengono considerati per la loro reale qualità comunicativa e attiva […] ma per tutti quegli elementi – definiti spontanei o naturali – che sgorgano, per così dire, da un fondo condiviso». In buona sostanza, dopo aver portato a compimento il processo politico dell’Unità, occorreva giustificare l’esistenza di una realtà culturale nazionale; bisognava, insomma, «giocare con le tessere residue di un puzzle scomposto e disperso nei secoli trascorsi» (cfr. E. Imbriani 2012, p. 148). Il conseguimento dell’unità nazionale lasciava infatti irrisolta la questione dell’unità culturale del paese: occorreva «cucire un tessuto costituito da parti molto differenti e distanti tra loro e lacerate e complicate al loro interno; fare gli italiani si presentava come una impresa di lunghissima durata ed estremamente difficoltosa» (Ivi, pp. 149-150).
È in quest’ottica che occorre leggere l’imponente lavoro dei due studiosi sui canti popolari. Per gli eruditi dell’Ottocento, fiabe, proverbi, danze, canti, e tutte le manifestazioni della “cultura popolare” erano da leggersi quali testimonianze della continuità nel tempo della cultura di un gruppo, ed in essi era lecito supporre e rintracciare i fondamenti stessi di una nazione. Ciò rispondeva ad una necessità: quella di costruirsi un passato comune. In Italia, come avveniva negli altri paesi europei, il folklore forniva il proprio contributo a questa esigenza e, contemporaneamente, era chiamato a segnalare la molteplicità culturale esistente nel nuovo regno unitario (Ivi, p. 153).
Tornando ai canti raccolti, per quel che riguarda il Salento meridionale (allora facente parte della Provincia di Terra d’Otranto), nel Volume I sono riportati i canti di Calimera (in numero di 7) e Nardò (38); sono, inoltre, presenti, nelle cospicue note, ulteriori canti raccolti in diversi altri paesi del Salento (ad es, Arnesano, Cerfignano, Cutrofiano, Galatina…). Nel Volume II, sono raccolti i canti di Monteroni (10), Carpignano Salentino (15), San Donato (7), Martano (14), Lecce e Cavallino (39); anche qui, sono presenti, sparsi nel testo e nelle note, altri canti raccolti in diversi borghi salentini. Nello stesso volume sono raccolti anche quelli di Morciano, in numero di 15.
All’alba dell’Unità Nazionale, Morciano è un piccolo comune del Capo di Leuca (Mandamento di Gagliano del Capo, Circondario di Gallipoli, Provincia di Terra d’Otranto) di appena 1.045 abitanti (cfr. Dizionario dei comuni del regno d’Italia ecc., 1863, p. 63); nel 1871 – data più prossima alla ricerca di Casetti e Imbriani – il piccolo centro si è addirittura leggermente spopolato, contando un numero totale di 1036 abitanti (v. F. GIUGNI 1871, p. 374).
Come si spiega allora l’interesse di studiosi dal calibro nazionale e internazionale per un piccolo paese del Capo di Leuca?3 Una chiave di lettura ci viene offerta dallo stesso Imbriani. Nella premessa al primo volume, infatti, lo stesso studioso si premura di avvertire il lettore che «i canti non sono stati raccolti tutti dal Casetti e da me», spiegando come quelli di Lecce e Cavallino, così come una parte di quelli di Morciano, siano in realtà stati raccolti da Sigismondo Castromediano, «Duca di Caballino», cui si devono anche quelli di Calimera e di Spongano (A Casetti-V. Imbriani 1871, v.I, p. VIII). L’interesse dei due studiosi per il piccolo borgo di Morciano si giustifica, dunque, con l’intervento in prima persona di un illustre studioso salentino, col quale i due studiosi erano in contatto, per di più legato familiarmente alla storia di questo luogo. Sigismondo Castromediano, infatti, conservava il titolo di Duca di Cavallino e di Morciano, ereditato dal padre Domenico.4
Sigismondo Castromediano (da: wikipedia).
L’interesse del “Duca di Caballino” per i canti popolari del Salento, trova piena giustificazione nella sua attività di patriota e nella sua spiccata sensibilità di studioso verso i beni culturali del Salento, che si manifesta anche attraverso un precocissimo interesse di ricerca nell’ambito delle tradizioni popolari. Il Castromediano, infatti, fu uno dei primi intellettuali salentini (accanto a Luigi Giuseppe De Simone), a porsi in maniera “moderna” il problema della raccolta e documentazione di canti popolari, all’interno di un più ampio e complesso progetto di politica culturale (cfr. S. TORSELLO 2013). In un breve articolo scritto in risposta all’appello di Antonio Casetti e Vittorio Imbriani per la raccolta di canti popolari pubblicato sul giornale napoletano “La Patria”, Sigismondo Castromediano non solo si pone come interlocutore privilegiato dei giovani studiosi, ripromettendosi di aiutarli nella loro meritoria attività, ma pubblica i testi di due canti da egli stesso raccolti, che di fatto costituiscono una delle prime fonti documentarie sulla musica popolare salentina: Quannu te llai la facce, famoso canto reso celebre anche dall’interpretazione del tenore leccese Tito Schipa, ed un lamento funebre, noto in più versioni presso vari luoghi del Salento (Ivi).
Tornando all’oggetto del presente contributo, prima di soffermarci su alcuni dei canti documentati per Morciano, è utile riportare e sottolineare un avvertimento degli stessi autori: «Parecchi de’ dialetti ai quali appartengono i rispetti, gli stornelli, le ninne-nanne, le canzonette infantili, gl’indovinelli, ecc., contenuti in questo saggio di Canti popolari delle Provincie Meridionali, non vennero mai scritti, che noi si sappia. Abbiam quindi spesso dovuto crearne l’ortografia» (A. CASETTI-V. IMBRIANI 1871, I, p. V). Si comprenderà, dunque, perché alcuni termini ed espressioni potranno apparire al lettore inusuali rispetto al dialetto tipico di Morciano e dell’area del Capo di Leuca.
Castello di Morciano di Leuca.
Il capitolo dedicato a Morciano inizia con il seguente canto, contrassegnato dal numero I:
Ahi quante pene pate ‘n omu zitu?
Massimamente quandu è ‘nnamuratu!
De la ‘ ucca lu perde l’appetitu,
Perde lu sentimentu de la capu;
E de la facce lu so’culuritu,
‘Ddenta comu de serpe ‘mbelenatu;
Cussi cinca ‘ide mmie, poveru zitu,
Pe’ ‘na figghia de mamma su’ dannatu.
Il canto descrive il trasporto amoroso di cui è vittima un uomo, follemente innamorato di una donna, la quale provoca nello stesso un totale ottundimento dei sensi e la totale perdita del senno. La tematica del canto è, dunque, quella amorosa, cifra distintiva di buona parte dei canti raccolti nel piccolo borgo del Capo. Sulla stessa linea, infatti, si prosegue col canto II, che gli autori riscontrano, con poche variazioni nel testo, anche a Lecce e Cavallino:
Bianca palumba ci hai le bianche pinne,
Sia benedetta l’ura ci t’amai!
Lu latte ci lattai de le toi minne,
‘Mmucca lu tegnu e nu ‘lu scurru mai.
Arveru de ulia ci mitte fronda,
La toa bellezza nu ‘fenisce mai:
Mme pari comu nave ‘mmienzu l’onda,
Quantu cchiù crisci, cchiù beddha te fai.
Interessante è il canto contrassegnato dal numero X:
La tùrtura ci perse la cumpagna,
Nu’ sse ‘ mmasuna cchiù sou verde locu.
Ma sse nde vola subra alla muntagna,
Suspiri mina e lagreme de focu.
Oh quantu lu mmiu core sse travaglia,
Mo ‘ ci lu bene mmiu mutau de locu!
Come evidenziato dagli stessi autori, il canto trova confronti molto evidenti con uno molto simile diffuso, in diverse varianti, nell’area toscana:
La tortora che ha perso la compagna
Dice che non la sa più ritrovare;
e se trova dell’acqua lei si bagna,
e se l’è chiara la fa intorbidare;
E poi con l’ale si batte nel petto,
e va dicendo: Amor sia maledetto!
E poi con l’ale si batte nel core,
e va dicendo: Maledetto sia l’amore!
Casetti e Imbriani propongono per questo canto una genesi letteraria, rintracciandone l’origine in «un sonettuccio di Baldassarre Olimpio dagli Alessandri da Sassoferrato, mediocrissimo poetucolo del cinquecento» (A. CASETTI-V. IMBRIANI 1872, v.II, pp. 288-289). Essi si riferiscono a Caio Baldassarre Olimpo Alessandri da Sassoferrato (noto anche come Olimpo da Sassoferrato), poeta marchigiano nato alla fine del Quattrocento e attivo nella prima metà del Cinquecento. Membro dell’Ordine dei minori conventuali, fine studioso e lettore di Aristotele, Olimpo compose numerosi versi d’amore con lo scopo di ricreare la mente affaticata dagli studi filosofici. È certo che passò quasi ininterrottamente di città in città a predicare, ma pochissimo si sa della sua vita. Alla sua predicazione e, più genericamente, alla sua condizione di religioso, sono dovuti i Sermoni e i Prohemii, che apparvero a Perugia, i primi nel 1519, i secondi nel 1522. Contemporaneamente, e anzi già prima di queste due opere, cominciarono a diffondersi i libretti di rime amorose, che talora egli stesso cantava accompagnandosi col liuto, o componeva ad istanza di amici, e che costituiscono la parte predominante e più significativa della sua produzione letteraria. Nelle sue opere ricorrono frequentemente motivi cari alla tradizione poetica popolare, e spesso esse rispecchiano con immediatezza costumi e momenti di vita popolare marchigiana. Il brano citato dagli studiosi appartenne senza dubbio ad una di queste raccolte, anche se non ci è stato possibile verificare, almeno per il momento, a quale.5 Da un punto di vista letterario tutta la sua produzione risente dell’influsso petrarchesco, ma non è priva talvolta di un tono personale. Anzi, insieme ai moduli tradizionali si incontrano componimenti di rara freschezza ed eleganza, come la famosa Frottola alla pastorella del “Linguaccio”, che ebbe molta fortuna, e da cui hanno avuto inizio i moderni studi su questo poeta, come si può notare ancora osteggiato e relegato nell’ambito dei poeti minori nella critica e dagli studiosi dell’Ottocento.6
Qual che sia, in ogni caso, l’origine del canto X di Morciano, è interessante notare come testi e temi di alcuni canti popolari (nel Salento ne sono noti diversi esempi) abbiano avuto una ampia diffusione in molte aree della Penisola, anche lontane tra loro e tradizionalmente considerate come non facenti parte dello stesso habitus culturale.
Altresì interessante, per altri aspetti, è, infine il canto numero XIV:
Silenciu, amici, ca cantandu dicu
Quantu foi de ‘sta donna ‘mpassiunatu
Ricche, sentiti lu miu cantu arditu
Occhi, chiangiti lu miu miseru statu!
A tribunal d’amore foi banditu,
ca la megghiu zitella iu ebbi amatu;
e poi ca n’autru amante ha preferitu,
e senza fazzu male m’ha scacciatu.
Ci informano, infatti, a riguardo gli autori: «Il Duca di Caballino vuole assolutamente vedere in questo rispetto un frammento di qualche canto di trovatore: “oggi” – dice egli – “i nostri contadini non sanno cosa fosse stato un tribunal d’amore”». Gli autori, concludono, comunque che «è certo imitazione di quest’ottava della solita provenienza letteraria»:
Silenzio amici, al mio cantar invito
Or che canta il suo duolo un disperato:
Porgete orecchio e al suo cantar l’udito,
E compiangete il suo pietoso stato.
Io tra gli amanti era il più gradito,
Tra gli amanti era amante riamato,
Ma del Regno d’amor fui già bandito,
E senza causa, oh dio! fui discacciato.
Com’è noto, il trovadore rappresenta il poeta proprio della civiltà romanza, nato dalla società feudale, figura che ebbe ampia diffusione nei secoli XII e XIII, con la fioritura della poesia provenzale. Tra i numerosi trovadori, alcuni appartennero alle più alte classi sociali, altri, di origine più modesta, furono attivi presso le corti dei signori, in Catalogna, Aragona, Castiglia ed Italia, diffondendovi i nuovi modi della lirica amorosa. L’opera di questi ebbe un forte influsso sulle letterature volgari, non soltanto dei popoli neolatini, ma di tutta l’Europa occidentale e centrale.7 Al di là della supposta origine “trovadorica” di questo canto salentino, è interessante notare come lo stesso Sigismondo Castromediano, lungi dal raccogliere in maniera acritica le vive manifestazioni della cultura popolare salentina, si preoccupasse di indagarne le origini e comprenderne il significato. La sua passione e il suo interesse nei confronti della “cultura popolare” del Salento sono ben chiare in una sua espressione, che riportiamo a chiusura di questo breve intervento: «Oh le canzoni dei leccesi quanto son candide ed espressive! Quanta bellezza!, quanta attraenza! Possono assomigliare alla donna che mi accenna e io la inchino e l’amo».8
NOTE
1 Ricordiamo che F. De Sanctis (1817-1883) fu un importante critico letterario, filosofo e uomo politico italiano. Fu autore della Storia della letteratura italiana (1870-71), capolavoro della storiografia letteraria, il quale si pone anche come storia della coscienza nazionale. Per ulteriori informazioni e bibliografia, si faccia riferimento, in generale a A. MARINARI, De Sanctis, Francesco, in Dizionario Biografico degli Italiani, V. 39, 1991.
2 Le brevi informazioni qui riportate su Vittorio Imbriani sono state ricavate da G. IZZI, Imbriani, Vittorio, in Dizionario Biografico degli Italiani, V. 62, 2004, cui si rimanda per ulteriori approfondimenti e per la relativa bibliografia.
3 Nello stesso Capo di Leuca, nelle immediate vicinanze di Morciano, ad esempio, Salve ha il doppio di abitanti, 2242 (F. GIUGNI 1871, p. 510).
4 Sigismondo Castromediano, nasce a Cavallino il 20 gennaio 1811 da Domenico, duca di Morciano, e da Teresa dei marchesi Balsamo. Discendeva da un’antica e illustre famiglia di origine francone, scesa in Italia nel sec. XII. Dopo le complesse vicende della sua giovinezza (tra cui il carcere), nelle elezioni del 27 gennaio 1861 il Castromediano fu eletto deputato dal collegio al primo Parlamento nazionale. Consigliere e deputato provinciale dal 1869 al 1879, preposto alla Pubblica Istruzione, secolarizzò l’educandato femminile di Lecce e ne incrementò la Biblioteca provinciale. Costituita col regio decreto del 21 febbraio 1869 la Commissione consultiva per la conservazione dei monumenti storici e di belle arti di Terra d’Otranto. Per suo impulso fu fondato il Museo archeologico di Lecce, allo scopo di raccogliervi materiale proveniente dai primi scavi che documentavano la cultura messapica. Sulla figura di Sigismondo Castromediano si può far riferimento, per notizie di carattere generale, a L. AGNELLO, Castromediano, Sigismondo, in Dizionario Biografico degli Italiani, V. 22, 1979. Cfr. anche G. MONTONATO 2011. A. LAPORTA 2013. F. D’ASTORE-L. GIANNONE 2014.
5 Ad eccezione dei Sermoni, la consultazione delle opere di Olimpo da Sassoferrato è molto difficile. Le sue pubblicazioni sono conservate presso le biblioteche nazionali di Firenze, Roma, Napoli e presso il polo universitario di Bologna.
6 Le informazioni biografiche su Caio Baldassarre Olimpo Alessandri da Sassoferrato sono state ricavate da R. AVESANI, Alessandri, Caio Baldassarre Olimpo da Sassoferrato, in Dizionario Biografico degli Italiani, V. 2, 1960, cui si rimanda per ogni approfondimento sulla vita e le opere del poeta.
7 https://www.treccani.it/enciclopedia/trovatore/
8 L’espressione compare in un breve articolo del Castromediano pubblicato in «Il Cittadino Leccese», Anno V, n. 52, Lecce, Marzo 1866, pp. 207 -208, scritto in risposta all’appello di Casetti e Imbriani per la raccolta di canti popolari sul giornale napoletano “La Patria”, appello che poi sarebbe sfociato nella monumentale monografia Canti popolari delle province meridionali (si veda S. TORSELLO 2013).
BIBLIOGRAFIA:
AA.VV., Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 2004.
CASTROMEDIANO S., Un mucchietto di gemme. Umile preghiera ai leggitori, e alle leggitrici, «Il Cittadino Leccese», A. V, n. 52, Lecce 1866.
CIRESE A.M., Imbriani demopsicologo, in Studi su Vittorio Imbriani. Atti del Primo convegno su V. Imbriani nel centenario della morte, Napoli novembre 1986 (a c. di R. Franzese e E. Giammattei), Napoli 1990.
D’ASTORE F. – L. GIANNONE (a c. di), Sigismondo Castromediano: il patriota, lo scrittore, il promotore di cultura (Atti del Convegno Nazionale di Studi, Cavallino di Lecce, 30 novembre-1 dicembre 2012), Galatina 2014.
GIUGNI F., Dizionario dei Comuni del Regno d’Italia, Firenze 1871.
IMBRIANI E., Folklore per la nazione, «L’Idomeneo», 14, 2012.
LAPORTA A., Il Duca Bianco di Cavallino (nuovi contributi), Galatina 2013.
MARTINA F., Sigismondo Castromediano. L’uso civile della storia patria, in R. Giura Longo e G. De Gennaro (a c. di), La storiografia pugliese nella seconda metà dell’Ottocento, 2002.
MINISTERO DELL’INTERNO (a c. di), Dizionario dei comuni del regno d’Italia compilato sulla seconda edizione della statistica amministrativa, Torino-Milano 1863.
MONTEVECCHI L., RAICICH M., L’inchiesta Scialoja sulla istruzione secondaria maschile e femminile (1872-1875), Roma 1995.
MONTONATO G., Breviario dal carcere. Sigismondo Castromediano e i patrioti salentini del 1848, Galatina 2011.
TORSELLO S., Sigismondo Castromediano e i “canti del popolo”, 5 febbraio 2013 (articolo pubblicato su http://lnx.vincenzosantoro.it/2013/01/05/sigismondo-castromediano-e-i-canti-del-popolo/ consultato il 4/1/2022).
© Tutti i diritti sono riservati. Qualsiasi riproduzione, anche parziale, senza autorizzazione scritta dell’autore, è vietata.